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È tornato il minimo? Lo prendo anch'io? No tu no! PDF Stampa E-mail
Pasetti - L'Opinione

Il primo principio esposto dalla Costituzione all’articolo 1 è espresso nei termini “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Tale riconoscimento del valore che il lavoro assume per lo Stato ha quale significativo corollario l’affermazione formulata nel successivo articolo 36, per il quale chi lavora “ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della sua opera e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed  alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa“.

Trattandosi di un principio che riguarda tutti i cittadini, e che assume quindi un generale rilievo sociale, non può essere sostenuto che il “lavoratore“ che può avvalersi di tale diritto sia solo colui che opera quale dipendente e non chi svolga un’attività autonoma.

Qualunque prestazione, manuale o intellettuale, di produzione, o di servizi, contribuisce allo sviluppo dell’economia nazionale e non può non essere compensata, traducendosi in un corrispettivo che consenta appunto a chi opera di salvaguardare “in ogni caso” l’esistenza propria e della famiglia con una vita, appunto,“libera e dignitosa“.

Alla quantificazione del meritato compenso, a fronte di rapporto contrattuale fra le parti, provvedono le leggi ed i contratti collettivi, stipulati a seguito di trattative fra le rappresentanze delle categorie.

I decenni trascorsi dalla fine del periodo bellico, ormai quasi 70 anni or sono, le diverse parti sociali che hanno operato ed operano in regime di democrazia nel mercato del lavoro, hanno consolidato i criteri economici da perseguire nel reciproco interesse per realizzarne una corretta gestione, nel contemperamento delle distinte esigenze, ma nell’osservanza dei reciproci diritti e doveri  e di quei principi etici che vengono tutelati dall’ordinamento giuridico, per consentire una effettiva realizzazione della giustizia sociale nei rapporti lavorativi.

E fu proprio la mancanza di regole che portò agli inizi del ‘900 alle prime stipulazioni dei contratti di lavoro da valere per le singole categorie, venendo concordati fra le parti compensi determinati appunto in base alla “qualità e alla quantità del lavoro“. In alternativa hanno provveduto le leggi quantificando i corrispettivi in base alle caratteristiche delle prestazioni, così come appunto avvenuto con l’introduzione delle tariffe a forcella per il trasporto merci conto terzi.

Se il lavoro è il fondamento del nostro Stato, e se il lavoro, producendo beni ed offrendo servizi per i cittadini, consente di sviluppare l’economia nazionale, il corrispettivo non può essere lasciato al solo potere contrattuale del più forte.

Il fenomeno del cosiddetto caporalato, che si era diffuso in taluni settori agricoli, e in alcuni territori, è oggi sanzionato. I minimi sindacali concordati fra le rappresentanze delle categorie dei datori di lavoro e di chi lo presta - non fra i singoli soggetti - sono l’espressione di civiltà in uno stato di diritto.

Il trasporto merci è come la circolazione del sangue all’interno di un corpo; scorre ininterrottamente, senza soste, e senza che nessuno ci pensi. Ma non appena il suo flusso diventa meno fluido ed il transito nell’organismo che consente di sopravvivere presenta problematicità può giungere ad arresti paralizzanti. Ma anche il sangue ha bisogno di nutrienti adeguati, altrimenti gli apparati che sono correlati a tale circolazione si arrestano. Se esiste un comparto lavorativo dal quale dipendono tutte le modalità operative della nazione: industria, artigianato, commercio, agricoltura, turismo, quello è il trasporto merci. Il suo arresto ha un tale rilievo che ove persistesse bloccherebbe a catena  ogni attività.

Pur tuttavia gli autotrasportatori autonomi che operano per i maggiori complessi nazionali e che giungono fino ai titolari delle minime imprese dell’intero territorio nazionale, rifornendo tutti i mercati, si rivolgono pazientemente alle strutture istituzionalmente preposte, che, al limite, esprimono qualche condiscendenza, elargiscono qualche sovvenzione, ma che nonostante gli anni non realizzano un piano programmatico complessivo, formulando leggi redatte talora in termini talmente ambigui da determinare le più differenziate interpretazioni da parte della Magistratura.

Solo nel 1974 con la Legge 6/6/74 n. 298, il legislatore si rese conto che occorreva istituire un Albo nazionale degli autotrasportatori e solo con il Decreto 18 novembre 1982 vennero fissate le norme che consentivano di determinare le modalità per una tariffa obbligatoria, cosiddetta a forcella, con una apertura fra un minimo - sì da rendere attuabile anche nel settore il principio dell’articolo 36 della Costituzione – e non oltre un massimo prestabilito.

Solo con la Legge 27/5/1993 n. 162, il legislatore si rese conto, anche indotto dalle pronunce della Magistratura, la quale aveva evidenziato come una prescrizione annuale prevista dall’articolo 2951 del codice civile (estraneo al trasporto merci conto terzi risalendo al 1942, nel pieno del periodo bellico) si traduca in pratica in una continuativa violazione del diritto a percepire quel minimo che, se rivendicato, avrebbe portato alla risoluzione del rapporto con il committente.

Per cui per tale tipologia di trasporto merci la prescrizione del diritto a rivendicare almeno quel minimo divenne quinquennale, e venne dichiarata non più applicabile la prescrizione di un anno lasciando sospesa la prescrizione fino alla conclusione del rapporto, per impedire la progressiva disapplicazione del minimo.

Ma le leggi sono purtroppo sovente espressione dei diversi rapporti di forza che una parte sociale pone in essere, che l’altra, non essendone compiutamente consapevole, non attua, pur se, operando, rappresenterebbe ed opererebbe non tanto per i propri interessi, ma per quelli di un’economia nazionale equilibrata, nell’attuazione dei principi costituzionali come previsti nel titolo III della Costituzione: “rapporti economici“, che, con l’articolo 35 afferma “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. E tale tutela non può che tradursi in un compenso che consenta una “esistenza libera e dignitosa“.

Tale “dignitosa“ disciplina legislativa venne vanificata dal Decreto Legislativo 21/11/2005 n. 286, che, avvalendosi del fascinoso, ma inappropriato - sotto il profilo economico sociale e giuridico, termine “liberalizzazione per l’esercizio dell’attività di autotrasportatore, vanificò per i trasporti che sarebbero stati effettuati dal 28/2/2006 la prescrizione quinquennale ed il minimo tariffario, senza che venisse neanche determinato quale dovesse essere il nuovo termine di prescrizione dopo la dichiarata non applicabilità di quello annuale. In tali  casi l’articolo 2946 cod. civ. stabilisce: “salvi i casi in cui la legge non dispone diversamente i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni“.

Ma ogni legge che abbia riflessi su valori ed interessi di parti sociali in posizioni alternative può tradursi talora in giudizi di soggettivo rilievo etico - e non solo di natura strettamente giuridica – che sono espressione della visuale sociale del giudicante.

Nella sentenza n. 221/10 del Tribunale del Lavoro di Monza, relativa alla rivendicazione di differenze tariffarie a forcella, per viaggi di un autotrasportatore artigiano monoveicolare, antecedenti al 28/2/2006, si legge: “il termine di prescrizione quinquennale faceva sì che il potenziale onere differito potesse raggiungere importi assai ingenti a carico delle imprese committenti, esposte alla minaccia“ ( sic ) “di rivendicazioni“.

Non commentiamo; ma chiediamo come si possa qualificare “minaccia “ la richiesta di ottenere in giudizio il riconoscimento di un diritto dichiarato tale per legge ed in violazione del quale non è stato corrisposto quanto dalla legge stabilito come obbligatorio.

La normativa del 2006 si limitava - sostanzialmente – ad assumere in considerazione i costi necessari per realizzare il viaggio del trasporto merci, ma tutt’altra è l’ampiezza della tutela applicativa prevista dall’articolo 36 della Costituzione.

Oggi si riaffaccia il minimo. E prontamente viene interessata la Magistratura per valutare se quel minimo sia da considerarsi come difforme dalla libertà di mercato. Un trasportatore dipendente ha aderito a quel minimo sindacale contrattuale obbligatorio che la giurisprudenza identifica come rispondente al rispetto dell’articolo 36 della Costituzione. Per taluni, per un autotrasportatore autonomo a carico del quale sono tutti i costi degli adempimenti conseguenti alla sua posizione commessa all’iscrizione all’Albo e le spese del viaggio, che rivendicasse quantomeno il minimo oggi previsto, la risposta dovrebbe essere:  no!

Perché bisogna sperare che la Magistratura si pronunci con decisioni che dopo molteplici anni diventano consolidate nel territorio nazionale dopo successivi ricorsi alla Corte di Appello, alla Corte di Cassazione e talora anche alla Corte Costituzionale, nella difformità delle valutazione dei plurimi giudicanti? Per quanto tempo il trasportatore autonomo deve rimanere in attesa di una risposta per sapere se ha anch’egli diritto al – sia pur minimo – compenso che sia conforme alla Costituzione ? La risposta sarà “si tu si” o “no tu no?”. I principi di diritto vanno affermati e difesi in primo luogo con la formulazione delle leggi.

La categoria dei trasportatori ha un potere che non esercita compiutamente, pur essendo la parte sociale senza la quale l’economia si arresterebbe, ove non venissero trasformati in lavoratori dipendenti con maggiori oneri per i contribuenti.

Allorché i biglietti di banca diventano usurati vengono cambiati. Allorché le leggi non sono più conformi ai tempi devono essere rinnovate, la moneta falsa va ritirata dal mercato, le leggi che alterano l’equilibrio economico tutelato dalla Costituzione e che hanno dato cattiva prova devo essere rapidamente sostituite con testi non più ambigui e suscettibili di interpretazioni difformi.

L’attuale momento dell’economia nazionale richiede che l’autotrasporto si esprima con immediatezza a livello politico legislativo, per riaffermare i propri diritti che costituiscono una componente dei diritti della società.

La richiesta del riconoscimento di un diritto non è una minaccia, è una richiesta di giustizia per una risposta che dica: Si, anche tu si!

Articolo di Giorgio Pasetti tratto dal TN Maggio-Giugno 2013, n. 3 anno XV, e dal TN Luglio-Agosto 2013, n. 4 anno XV

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