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Il Mobbing nel CCNL Assotrasporti PDF Stampa E-mail
Mondo TN
2019
08
Aprile

IL C.C.N.L. Trasporti dedica un articolo al mobbing nel CAPITOLO V relativo alle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Il breve testo contrattuale si limita a stabilire un impegno del datore di lavoro a evitare ogni forma di violenza “psicologica e morale” sui lavoratori. 

mobbing-webNel panorama dei C.C.N.L., laddove si specifichi il tema, si ricorre a enunciazioni di principio in quanto si tratta di un fenomeno che, seppur presente da sempre nei luoghi di lavoro, non è mai stato definito nel merito dalla contrattazione collettiva, lasciando al giudice del lavoro la determinazione del fenomeno in termini disciplinari.

Anche un settore lavorativo diverso dalla fabbrica o dagli uffici tradizionali quale quello dei trasporti, contraddistinto dalla quasi totalità della componente maschile e dalla prevalenza del personale viaggiante, non può dirsi immune dal fenomeno, le cui conseguenze ricadono sul datore di lavoro non solo per quanto riguarda gli aspetti economici dovuti ai risarcimenti per le condotte poste in essere a danno del lavoratore, ma può sfociare in condanne penali nei confronti del legale rappresentante, dei quadri intermedi e finanche degli stessi colleghi di pari grado.

Per inquadrare il contesto occorre fare una breve cronistoria, attraverso la nascita e il significato del mobbing, il cui termine (dall’inglese to mob: “assalire”) definisce in senso generico tutte le persecuzioni morali subite dal lavoratore sul posto di lavoro.

Torino ha l’onore di avere dato origine a questa tipologia di conflitti di lavoro, in quanto la prima sentenza di condanna di un’azienda nei confronti di un dipendente sottoposto a vessazioni è stata pronunciata dal Tribunale di Torino nel 1999.

Da allora la normativa è in costante evoluzione sulla base delle sentenze nel frattempo intervenute, le quali hanno anche definito diverse fattispecie di comportamenti mobbizzanti a variazione del tema principale.

Le tutele del lavoratore contro questo tipo di condotte emanano dal disposto dell’art. 2087 del codice civile, laddove viene sancito che, in funzione degli obblighi che scaturiscono dal contratto, il datore di lavoro è tenuto a proteggere l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente, adottando tutte le misure che possano rivelarsi idonee a tale scopo.

La giurisprudenza ha però posto alcune condizioni per identificare chiaramente il reato, e cioè la ripetitività e la sistematicità dei comportamenti “mobbizzanti” in un arco temporale circoscritto e la volontarietà degli effetti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

Occorre ovviamente un riscontro sul piano medico-legale con l’esatta individuazione di uno stato di disagio psicologico e l’insorgere di malattie psicosomatiche con la conseguenza della perdita, da parte della vittima, della capacità lavorativa e della fiducia in se stesso, fino a sfociare nell’abbandono del posto di lavoro o, in casi fortunatamente rari, in un crescendo di danni alla salute fino alle estreme conseguenze.

Nel corso degli anni si sono maggiormente definiti i comportamenti; si parla infatti di “bossing” quando il comportamento vessatorio è messo in pratica in prima persona dal datore di lavoro o “mobbing verticale” quando l’opera è svolta dai dirigenti preposti o da altri dipendenti di pari grado della vittima su istigazione dei dirigenti stessi.

In pratica perché si configuri il mobbing occorre identificare una serie prolungata di atti con le caratteristiche di persecuzione e discriminazione e non di semplici conflitti interpersonali originanti da rivalità o antipatie reciproche, che sappiamo essere frequenti sui posti di lavoro.

In questo contesto si è fatto avanti in forza di sentenze della Corte di Cassazione lo “straining”, termine anche qui mutuato dalla lingua inglese che può essere tradotto come: “tendere”; “mettere sotto pressione”.

Anche nello straining occorre individuare una condizione di disagio della vittima sul posto di lavoro generata da una forma di pressione superiore a quella normalmente riscontrabile rispetto alla mansione svolta, o comunque, superiore a quella a cui sono sottoposti i colleghi impiegati nella stessa mansione o nella stessa qualifica.

Nello straining, a differenza del mobbing non è richiesta la presenza di più atti ostili portati avanti con sistematicità e frequenza, ma è sufficiente anche una singola azione che abbia effetti prolungati nel tempo, come ad esempio, un demansionamento, la marginalizzazione o lo svuotamento della mansione.

Per dirla con i termini usati dalla Suprema Corte: “una situazione lavorativa di stress forzato in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero o distanziate nel tempo ma tale da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa.”

Articolo di Simone Cogno tratto dal TN 2/2019 anno XXI

© TN Trasportonotizie - Riproduzione riservata

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